Nel 2010, in un ospedale di Brisbane, in Australia, un uomo di mezza età lottava per la vita. Aveva un’infezione da Clostridium difficile, un batterio resistente agli antibiotici che stava devastando il suo intestino. I farmaci avevano fallito. Il suo corpo era debilitato, la situazione disperata.
Il malato fu mandato a casa. Poiché era un membro della comunità degli aborigeni australiani la famiglia chiese un consulto ad un ‘medicine man’ che suggerì di effettuare il trapianto fecale da un parente sano.
Fu allora che i medici accettarono una terapia radicale: un trapianto di microbiota fecale. Prelevarono il materiale intestinale da una persona sana – un parente – e lo trasferirono nel suo colon. Un gesto semplice nella forma, rivoluzionario nella sostanza: ripopolare l’intestino con batteri “buoni” per combattere i “cattivi”. Nel giro di pochi giorni, l’infezione scomparve ed il paziente tornò a vivere.
Quel caso aprì gli occhi a molti. Se cambiare i batteri intestinali poteva curare un’infezione mortale, cos’altro potevano fare quei microbi invisibili?
Fino a pochi anni fa, l’intestino era visto come un tubo che serviva solo per la digestione. Oggi sappiamo che ospita un vero e proprio “organo nascosto”: il microbioma. Trilioni di batteri, virus e funghi che non solo ci aiutano a digerire, ma producono vitamine, modulano il sistema immunitario e – cosa ancora più sorprendente – dialogano con il cervello.
L’intestino comunica con il sistema nervoso attraverso segnali chimici, ormonali e nervosi. Questa rete è chiamata asse intestino-cervello. È una connessione potente: tanto che uno squilibrio del microbioma può influenzare umore, memoria, capacità motorie e addirittura il rischio di malattie neurologiche.
Studi recenti hanno mostrato che i pazienti con Parkinson hanno un microbioma diverso rispetto ai sani: meno batteri benefici, più specie di batteri pro-infiammatori. In alcuni piccoli trial clinici, i trapianti di microbiota e l’uso di probiotici mirati hanno ridotto rigidità muscolare, tremori e migliorato l’umore. Non è una cura definitiva, ma è un segnale forte: l’intestino può influenzare il decorso della malattia.
Anche nell’Alzheimer, gli scienziati stanno osservando collegamenti simili. Alcuni esperimenti su modelli animali hanno mostrato che modificare il microbioma riduce la formazione delle placche amiloidi tipiche della malattia di Alzheimer.
E poi c’è l’autismo: uno studio negli Stati Uniti ha seguito bambini con disturbo dello spettro autistico sottoposti a un trattamento di trapianto di microbiota. I risultati? Miglioramenti nel linguaggio, nella socialità e nella gestione delle emozioni, effetti che si sono mantenuti anche a distanza di anni.
Siamo ancora agli inizi. Non basta “aggiungere batteri buoni” a caso. Ogni microbioma è unico, come un’impronta digitale. La sfida dei prossimi anni sarà sviluppare terapie personalizzate, capaci di “ri-sintonizzare” il microbioma in base alla malattia e al paziente.
Quel paziente australiano che si salvò nel 2010 non poteva immaginarlo, ma il suo caso ha acceso una miccia. Oggi stiamo scoprendo che curare l’intestino può significare curare anche la mente.
Il futuro della medicina, forse, passa da lì: da ciò che abbiamo dentro, e che per troppo tempo abbiamo ignorato.
Per anni abbiamo cercato risposte nel cervello, nei geni, nei farmaci. Ma forse una parte della cura era sempre stata lì, nascosta tra miliardi di batteri che lavorano in silenzio nel nostro intestino. Oggi iniziamo a capirlo: per salvare il nostro corpo dobbiamo ascoltare la nostra pancia.
Molti di noi usano spesso strumenti differenti per valutare le proprie attività fisiche ma la maggior parte non conosce come tramutare questi dati in consigli pratici per eventuali miglioramenti. Questo articolo può essere utile per tutti coloro che camminano in modo regolare ogni setttimana.
Yana Paskova per il New York Times il 20 settembre 2022.