Due anni fa, sul New York Times, Paula Span pubblicò un articolo sugli eccessivi trattamenti nei pazienti negli ultimi mesi di vita. Le sue riflessioni rimangono attuali anche nel 2025. In Italia, nonostante la Legge 38 del 2010 garantisca il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, l’accesso a questi servizi è ancora limitato. Secondo dati recenti, solo una persona su tre deceduta per tumore ha ricevuto assistenza palliativa, con forti disuguaglianze tra le regioni del Nord e del Sud.
A luglio, Jennifer O’Brien ha ricevuto una delle telefonate più temute: suo padre, 84 anni, che viveva da solo in una zona rurale del New Mexico, era caduto e si era fratturato un’anca. Le sue condizioni generali di salute erano già molto compromesse da insufficienza cardiaca, problemi respiratori e un passato da forte fumatore. Dipendeva da un ventilatore BiPAP per respirare e si muoveva solo con un deambulatore. Aveva espresso chiaramente di non volere rianimazioni o intubazioni in caso di emergenza.
Quando, in ospedale, gli venne proposto l’intervento chirurgico, O’Brien – esperta in sanità e vedova di un medico palliativista – fu chiara: “Papà, cuore e polmoni sono a pezzi”. Il padre scelse di rifiutare l’operazione e di ricevere cure palliative in un hospice. Morì in serenità, assistito e con la figlia accanto.
Questo episodio personale apre la riflessione su un problema diffuso. Uno studio della Case Western Reserve University ha analizzato l’assistenza ricevuta da oltre 146.000 pazienti oncologici anziani negli ultimi 30 giorni di vita. I dati mostrano come una percentuale ancora molto alta – il 58% di chi vive in comunità e il 64% dei residenti in strutture – riceva cure invasive, come chemioterapia, radioterapia, ricoveri ripetuti o terapia intensiva. Un quarto di questi pazienti è sottoposto a trattamenti oncologici aggressivi, anche quando si è vicini alla morte.
Eppure, gli studi dimostrano che la maggior parte delle persone preferisce morire a casa e desidera un fine vita più sereno. Le cure aggressive, oltre a causare più sofferenza, sono spesso inefficaci e anticipano la morte. I familiari, a loro volta, vivono traumi e sensi di colpa maggiori.
Perché allora succede? Spesso i medici evitano conversazioni difficili sul fine vita, o non sono adeguatamente formati per condurle. Anche quando vengono fatte, le famiglie tendono a interpretare in modo troppo ottimistico le previsioni negative. Esiste infatti un fenomeno documentato chiamato “pregiudizio dell’ottimismo”: si pensa che il proprio caro sia “più forte” e che possa farcela, spingendo per trattamenti anche contro la sua volontà.
In alcuni casi, i desideri del paziente vengono ignorati. Un esempio raccontato nell’articolo riguarda un uomo malato di cancro che rifiutava ogni terapia aggressiva, ma la moglie ha insistito per continuare. Solo dopo tre mesi durissimi di chemio e ricoveri, è riuscito ad entrare in hospice e morire come desiderava.
Questi temi ci riguardano da vicino anche in Italia. La Legge 38/2010 garantisce il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, sia a domicilio che in hospice. Ma purtroppo, tale legge non è sempre applicata: mancano medici formati, strutture adeguate e una cultura diffusa del fine vita. Molti pazienti e famiglie non conoscono i propri diritti o non ricevono informazioni chiare sui percorsi alternativi alla medicina aggressiva.
Perché è importante parlarne?
Perché le scelte sulla fine della vita sono cruciali. Devono essere informate, rispettate e supportate. Un sistema sanitario moderno non può ignorare il diritto delle persone a morire con dignità, evitando sofferenze inutili e rispettando i propri valori.
In Italia, c’è chi lavora ogni giorno per questo. La Ryder Italia, fondata quasi 40 anni fa, è stata tra le prime organizzazioni a offrire cure palliative gratuite, e la prima a farlo nella città di Roma. Da allora, non ha mai smesso. Ancora oggi, continua a prendersi cura di pazienti con malattie inguaribili, accompagnandoli con competenza e umanità lungo il percorso più delicato della vita. È una testimonianza concreta di come un altro approccio sia possibile, dove la qualità della vita e il rispetto delle volontà del paziente vengano messi al centro.
Promuovere una cultura delle cure palliative significa restituire dignità alla persona fino all’ultimo respiro, e restituire alle famiglie la possibilità di ricordare con serenità e gratitudine il tempo condiviso.
Cosa significa BiPAP?
La BiPAP (Bilevel Positive Airway Pressure) è una terapia respiratoria che funziona erogando aria pressurizzata a due livelli diversi durante il ciclo respiratorio, uno durante l'inspirazione (IPAP) e uno durante l'espirazione (EPAP). |
Molti di noi usano spesso strumenti differenti per valutare le proprie attività fisiche ma la maggior parte non conosce come tramutare questi dati in consigli pratici per eventuali miglioramenti. Questo articolo può essere utile per tutti coloro che camminano in modo regolare ogni setttimana.
Yana Paskova per il New York Times il 20 settembre 2022.