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I giorni tragici di Bergamo nei primi mesi dell'anno. E' possibile capire quali sono le reali motivazioni di questa tragedia?

L'Italia è nuovamente al centro dell'attenzione generale per l'alto numero di decessi dopo la seconda ondata della pandemia da Coronavirus. La maggior parte della popolazione sperava che dopo quello che è avvenuto nei primi mesi dell'anno fossero state prese adeguate misure di contenimento in attesa di un vaccino.

In questa situazione difficile diventa essenziale capire dove sono stati fatti alcuni errori per cercare di imparare da questi per migliorare il nostro futuro. Il New York Times negli ultimi mesi ha pubblicato una serie di articoli riguardo alcune scelte erronee intraprese in differenti pasi del mondo che hanno peggiorato la diffusione del Coronavirus. Quello che segue riguarda la situazione in Italia nei primi mesi dell'anno.

Bergamo: Questa provincia del Nord Italia è stata tra le zone in cui il virus ha ucciso di più in Occidente. Un’inchiesta del The New York Times (29/11/2020) ha rivelato che indicazioni erronee i e ritardi burocratici hanno fatto sì che si siano perse molte più vite del necessario. Quando a metà febbraio Franco Orlandi, un ex camionista in buona salute, arriva con febbre e tosse al pronto soccorso di Bergamo, nel Nord Italia, i medici stabiliscono che ha l’influenza e lo mandano a casa. Due giorni dopo, un’ambulanza riporta indietro l’ottantatreenne. Non riesce a respirare.

L’Italia in quel momento non ha nemmeno un caso di coronavirus nel suo territorio, ma i sintomi del signor Orlandi lasciano perplessa la Dottoressa Monica Avogadri, l’anestesista 55enne che lo ha preso in cura all’Ospedale Pesenti Fenaroli. Non lo sottopone al test per il coronavirus perché i protocolli italiani, adottati sulla base di quelli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, raccomandano di sottoporre al tampone solo le persone che hanno una connessione con la Cina, dove è iniziata l’epidemia. Alla domanda se il signor Orlandi avesse un legame con la Cina, sua moglie risponde disorientata. A malapena frequentavano il Patty’s Bar, il bar del quartiere, dice. “La Cina?” risponde al medico. Non sapeva neppure dove fosse.

Quel che la Dottoressa Avogadri non sapeva è che il Covid-19 era già arrivato nella sua regione, in Lombardia, una scoperta che avrebbe fatto cinque giorni dopo che un altro medico nella vicina città di Lodi, aveva deciso di violare i protocolli nazionali facendo un tampone ad un paziente. A quel punto anche la Dottoressa Avogadri, a cui quegli stessi protocolli avevano legato le mani, dopo giorni trascorsi a occuparsi del signor Orlandi e di altri pazienti, si era ammalata. Il suo ospedale, invece di identificare e curare la malattia, era diventato un acceleratore della sua diffusione in quello che è il cuore pulsante dell’economia italiana. Bergamo è stato uno dei campi di battaglia in cui il virus ha ucciso di più in Occidente, un luogo segnato da sofferenze inconcepibili a cui le sirene delle ambulanze facevano da colonna sonora mentre i medici e gli infermieri del pronto soccorso staccavano i genitori dai propri figli, i mariti dalle mogli, i nonni dalle proprie famiglie. Gli ospedali si trasformavano in obitori di fortuna, si creavano lunghe file di bare che davano vita a scenari desolanti, rappresentando un monito per i governanti degli altri paesi occidentali su come il virus potesse rapidamente sovraccaricare i sistemi sanitari e trasformare le infermerie in luoghi di incubazione. Il paese del signor Orlandi, Nembro, è stato forse quello più colpito in tutta Italia, con un aumento della mortalità dell’850 percento nel marzo scorso. Sono morte così tante persone che il parroco ha ordinato di smettere di suonare le campane a morto, il cui suono era incessante.

Perché oltre 3.300 persone siano morte di Coronavirus a Bergamo, una ricca e colta provincia di poco più di un milione di abitanti, con ospedali di altissimo livello, resta un mistero difficile da risolvere, un’ombra su cui il governo preferisce glissare, mentre illustra con orgoglio il successo dell’Italia nell’arginare la prima ondata dell’epidemia. Il virus si è diffuso ovunque. In una casa di riposo di Bergamo, 34 degli 87 ospiti sono morti. Inizialmente sui tamponi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha creato una fallace sensazione di sicurezza e ha contribuito a sviare i medici riguardo la diffusione del virus. Ma dopo che il Covid-19 è emerso, errori e inerzia hanno aggravato la situazione e sono costati tempo prezioso a Bergamo e all’Italia in un momento in cui anche i minuti contavano.

Il direttore dell’Ospedale Pesenti Fenaroli ha chiuso le porte non appena si è reso conto di avere a che fare con un’epidemia. Ma i funzionari della Regione gli hanno ordinato di riaprire poche ore dopo. Intanto il personale dell’ospedale, i visitatori e i pazienti dimessi, che erano stati esposti al virus, giravano per la provincia. Per giorni, tutti si aspettavano che il governo nazionale ordinasse il lockdown ai comuni in provincia di Bergamo, come aveva fatto poco prima, in modo immediato e decisivo, a Lodi. Alcuni sindaci del Bergamasco attendevano con ansia che la polizia chiudesse gli accessi al territorio anche se molti imprenditori e politici locali sembravano riluttanti.

Il premier italiano, Giuseppe Conte, consultò pubblicamente un comitato di esperti scientifici, che proposero formalmente di seguire l’esempio di Lodi e di chiudere le zone infette della provincia di Bergamo. In privato però le lobby imprenditoriali facevano pressione perché non venissero chiuse le fabbriche della zona. Alla fine, dopo giorni critici pieni di esitazioni burocratiche e di diverbi tra Roma e le autorità regionali, il governo decise che il tempo per salvare Bergamo era passato.

Con il virus fuori controllo nella provincia e con focolai che sorgevano ovunque, il governo esita ulteriormente, per poi imporre restrizioni su una zona più ampia. Due settimane dopo che il signor Orlandi era risultato positivo, l’Italia ha deciso il lockdown per l’intera regione. Poi per l’intero Paese. Ma Bergamo ormai era persa.

Adesso che il coronavirus, nel bel mezzo della seconda ondata, ha inondato il globo senza risparmiare praticamente nessuno Stato, è facile dimenticarsi di quanto fosse sola l’Italia a febbraio tra le democrazie occidentali, sola di fronte a una minaccia e senza un libretto delle istruzioni.

Già durante la stagione influenzale, alcuni medici di famiglia in Lombardia avevano notato degli strani casi di polmonite e prescrivevano più radiografie del solito. La regione ha molti legami commerciali con la Cina e gli infettivologi stavano tenendo d’occhio l’epidemia di coronavirus nella città di Wuhan. Ma si fidavano dei nuovi e stringenti protocolli, adottati dall’O.M.S. che a fine gennaio indicavano il tampone solo per coloro che avevano qualche collegamento con la Cina.

Ma nessuno dei loro pazienti rientrava in questo criterio, tanto che i pochi test effettuati furono principalmente eseguiti a persone che avevano viaggiato di recente. Tutti risultati negativi.

Finché il 20 febbraio, Annalisa Malara, un medico della cittadina di Codogno, nella provincia di Lodi, decide di ignorare il protocollo e fa un tampone a un uomo di 38 anni che presenta una grave polmonite e non risponde alle cure standard. Il tampone risulta positivo e la sera stessa diventa il primo caso noto di Covid-19 trasmesso localmente in Italia. Due giorni dopo, in una piccola sala conferenze nella periferia di Roma, si tiene una riunione d’emergenza alla Protezione Civile. Il Presidente Conte siede a un capo di un tavolo ovale, circondato dai suoi ministri, e ascolta il Ministro della Salute, Roberto Speranza, proporre un drammatico lockdown delle città nella zona di Lodi.

I ministri, scambiandosi sguardi nervosi, si dichiarano d’accordo all’unanimità e il governo il 23 febbraio invia la polizia e l’esercito per isolare tutta quell’area, una decisione tutt’oggi citata come la misura del suo coraggio e della sua volontà di dare la priorità alla salute pubblica, prima che all’economia. Il Ministro Speranza, valutando con attenzione una scelta tanto importante, ritiene necessario agire con prudenza. “Stavo giocando con la vita delle persone,” ha poi spiegato aggiungendo che nella storia della pandemia, “Era la prima volta nella storia dei Paesi occidentali che si faceva un lockdown nazionale e che si toglieva la libertà alle persone”. La scoperta del primo caso nel Lodigiano, a quasi 100 chilometri da Bergamo, ha la forza di una rivelazione per la Dottoressa Avogadri, a letto malata.

Alza il telefono il 21 febbraio e chiama i suoi colleghi del Pesenti Fenaroli, l’ospedale di Alzano Lombardo nella valle del fiume Serio, una zona industriale e densamente popolata vicino a Bergamo. Li sollecita a fare il tampone al suo paziente, il signor Orlandi. All’inizio la prendono in giro, facendole notare che lui non era mai stato nemmeno vagamente vicino alla Cina. Ma altri pazienti sul suo stesso piano stanno sempre peggio e un altro uomo con sintomi sospetti era appena arrivato al pronto soccorso. I dirigenti dell’ospedale decidono di sottoporre al tampone lui e uno dei compagni di stanza del signor Orlandi.

A mezzogiorno del 23 febbraio, il direttore dell’ospedale, il Dottor Giuseppe Marzulli, riceve i risultati. Entrambi sono positivi. Il Dottor Marzulli insiste con il medico che gli aveva portato i risultati per capire se lo staff avesse indagato fino in fondo i possibili legami con la Cina. L’avevano fatto. E non ce n’erano. Il virus stava già circolando in mezzo a loro. In quel momento il Dottor Marzulli si rende conto che l’ospedale sta andando incontro a un disastro. “Avevamo cercato chi era stato in Cina, e questo è stato l’errore tragico”. Fanno il tampone al Signor Orlandi quello stesso giorno, mentre altri membri della sua famiglia camminano per i corridoi del terzo piano. Alcuni visitatori notano che dei membri dello staff dell’ospedale tossiscono.

Il Dottor Giuseppe Marzulli, l’ex direttore dell’ospedale Pesenti Fenaroli, aveva provato a chiudere il suo pronto soccorso dopo avere scoperto dei casi alla fine di febbraio. Gli è stato ordinato di riaprire quasi subito. Il Dottor Giuseppe Marzulli, l’ex direttore dell’ospedale Pesenti Fenaroli, aveva provato a chiudere il suo pronto soccorso dopo avere scoperto dei casi alla fine di febbraio. Gli è stato ordinato di riaprire quasi subito. Data l’azione rapida del governo su Lodi, il Dottor Marzulli inizia a prepararsi per un lockdown. Impedisce il cambio di turno, così che non entri nessun altro dipendente e chiude il pronto soccorso, conscio che l’ospedale può disporre solo di una dozzina di test per il coronavirus. “Non avevamo tamponi. Era il nostro problema più grosso”, dice. Fanno i tamponi che possono, ma “chiaramente, non è bastato”.

Poche ore dopo, la Regione e l’Asst Bergamo Est, di cui fa parte il Pesenti Fenaroli, decidono insieme di riaprire il pronto soccorso nonostante le obiezioni del Dottor Marzulli. Aida Andreassi, una funzionaria della sanità lombarda, ha spiegato che il pronto soccorso è stato sanificato e che l’ospedale rappresentava un “presidio indispensabile” per una regione che aveva bisogno di tutte le sue strutture mediche. Ma con pochi tamponi disponibili, racconta il Dottor Marzulli, l’ospedale era inerme. Il 24 febbraio arrivano i risultati del signor Orlandi. Anche lui è positivo. A quel punto, un’altra cinquantina di persone erano arrivate al pronto soccorso con sintomi, esaurendo rapidamente la scorta di tamponi dell’ospedale, ha raccontato il Dottor Marzulli. Il medico del lavoro fa il test alla dott.ssa Avogadri con uno di quei tamponi, ma insiste con i dirigenti dell’ospedale perché gliene diano di più, sottolineando inquieto in un’email che hanno “colleghi sintomatici che non sono stati testati”.

I suoi superiori chiedono altri 100 tamponi a un altro ospedale nella regione, in uno scambio di email visionato da The New York Times. Ma secondo il Dottor Marzulli solo la metà sono effettivamente arrivati al Pesenti Fenaroli il 26 febbraio. Lui intanto si dà da fare, separando i pazienti con sintomi da quelli senza, e mandando a casa il personale visibilmente malato. Ma molti pazienti che erano venuti in contatto col virus rimangono lì, e i loro medici e infermieri continuano a circolare. Il 27 febbraio la Regione manda centinaia di altri tamponi agli ospedali di Bergamo, come dimostrano dei documenti della Regione stessa. Ma il Dottor Marzulli sostiene che non siano arrivati subito al Pesenti Fenaroli. È costretto a razionarli facendone qualche dozzina al giorno fino al 1 marzo, il giorno in cui, esausto e malato di Covid, perde i sensi. “Se dobbiamo identificare una scintilla”, ha affermato Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, mentre le infezioni devastano la sua città, “è stato l’ospedale”.

Dieci Giorni di Indecisione

Le piccole cittadine intorno all’ospedale diventano via via più centrali nel dramma che si sta dipanando tra Bergamo e Roma. Il 25 febbraio, la provincia di Bergamo registra solo 18 casi rispetto ai 125 di Lodi. I dirigenti della sanità della Regione sono preoccupati dal contagio al Pesenti Fenaroli, ma sostengono che sia “presto per dire se è un altro focolaio”. Intanto a Roma, il Presidente Conte esorta a non testare in modo più estensivo, dicendo che i sanitari dovranno seguire i consigli della comunità scientifica, “altrimenti finiremo col drammatizzare” l’emergenza. Il 26 febbraio, con 20 casi registrati a Bergamo, il comitato tecnico scientifico a Roma scrive che non ci sono condizioni che richiedano un lockdown. Claudio Cancelli, il sindaco di Nembro, ha riferito che i funzionari sanitari di Bergamo avevano minacciato di tagliare i fondi ai 18 comuni della zona se avessero chiuso i centri per gli anziani o i disabili.

Il giorno dopo, ha raccontato, avevano rassicurato i sindaci: “Non temete, non c’è rischio di zona rossa”. Ma il 28 febbraio i casi a Bergamo arrivano a 103, mentre a Lodi sono 182. Alla conferenza stampa della Regione Lombardia, un importante medico identifica nel Pesenti Fenaroli la causa dell’epidemia nel bergamasco. Confindustria Bergamo, l’associazione degli industriali della provincia, risponde il giorno stesso postando un video in inglese intitolato “Bergamo Is Running”. Il governo italiano afferma che il rischio di infezione è basso”, dice la voce narrante, mentre le immagini mostrano industrie al lavoro. Concorda con quel messaggio Simona Ghirlandi, che gestisce un’azienda di trasporti e logistica su scala nazionale a Nembro, a meno di due chilometri dall’Ospedale Pesenti Fenaroli. I colleghi a Lodi sottoposti a lockdown le hanno raccontato di aver perso molti clienti. Fermare l’industria a Bergamo è impensabile.

Quando nasci qui, la prima cosa che ti dicono è che devi lavorare”, ha raccontato.

Associazioni di industriali hanno fatto pressione sul governo perché non chiudesse le fabbriche.

Nonostante le preoccupazioni dell’industria, i membri del governo hanno detto che le loro decisioni sono state guidate unicamente dalla scienza. “Anche l’industria deve sopravvivere”, hanno affermato. I rappresentanti degli imprenditori, ma anche il sindaco di Alzano Lombardo, fanno resistenza a un possibile lockdown. Dicono al giornale locale che sarebbe una tragedia per l’economia e attivano i contatti con i loro rappresentanti, influenti a Roma. Nella capitale, il Presidente Conte ha poi ribadito che si era fatto guidare solo dalla scienza. Conte ha declinato le richieste di intervista per questo articolo, ma ha negato di aver mai ricevuto delle pressioni da parte di Confindustria mentre il suo governo decideva cosa fare a Bergamo.

Gli stessi rappresentanti del potente gruppo di industriali hanno invece detto di aver fatto richieste chiare. “C’era un filo diretto tra Confindustria e il governo in quel momento”, ha riferito Licia Mattioli, che allora era la vice presidente dell’associazione. I vertici avevano detto direttamente al Presidente Conte che il rapido lockdown delle fabbriche a Lodi era inutilmente costato posti di lavoro e che nelle fabbriche di Bergamo misure come il social distancing sarebbero state sufficienti. “Quello che sostenevano era che fermare tutte le industrie, anche localmente, è molto, molto pericoloso”, ha ricordato. “Non so se abbiano capito”, ha detto, riferendosi al Presidente Conte e ai suoi ministri. “Ma almeno hanno ascoltato”. Le fabbriche rimangono aperte fino alla fine di marzo, e molte non chiuderanno mai. “Posso assicurarvi che mai e poi mai e poi mai abbiamo fatto delle considerazioni su questo”, ha affermato il Ministro della Salute Speranza. “Abbiamo deciso sin dall’inizio che il primo punto era la salute e che tutto il resto veniva dopo”.

Il 3 marzo, il comitato scientifico del governo propone una zona rossa intorno a Nembro e Alzano Lombardo. Le autorità della Lombardia la considerano una decisione presa, così come il signor Cancelli, il sindaco di Nembro, che a quel punto si è ammalato e lavora in isolamento. “Questo posto avrebbe dovuto chiudere a febbraio, quando era chiaro che c’erano casi dichiarati ufficialmente dentro l’ospedale, che sicuramente erano venuti in contatto con i sanitari, coi parenti, con gli altri pazienti”, ha detto il signor Cancelli. “Il 3 marzo pensammo ‘Chiudono stanotte’”.

Ma il Presidente Conte, che doveva approvare la decisione, ha poi sostenuto di non aver avuto notizia del progetto per altri due giorni. Nel frattempo, il Ministro Speranza ha detto di aver richiesto che il comitato scientifico spiegasse nei dettagli in un report i motivi per chiudere le cittadine. “Ci dissero solo di chiudere”, ha detto Speranza. “Non si può dire ‘Tolgo la libertà’ alle persone’ per due parole”. Il Ministero dell’Interno scrive ai carabinieri di Bergamo di iniziare a prepararsi per un lockdown, ha riferito il Colonnello Paolo Storoni, allora capo dei Carabinieri della zona. Carmen Arzuffi, proprietaria dell’Hotel Continental, ha ricordato che il comando di polizia della zona l’ha chiamata il 4 marzo per prenotare 50 camere per 100 poliziotti che stavano arrivando. Il signor Cancelli, il sindaco di Nembro, si prepara a chiudere le strade. Agostino Piccinali, il vice presidente della sezione di Bergamo di Confindustria, dice ai dirigenti nazionali che la quarantena di Nembro e Alzano è imminente. Aiuta anche a buttare giù un progetto per mantenere aperta la principale arteria per i trasporti industriali attraverso la valle, senza entrare nelle due cittadine.

Il 5 marzo, il comitato scientifico chiede nuovamente al governo di chiudere la zona.  Il Ministro Speranza ha detto di aver mandato un report a Conte quella notte. Un parlamentare di Bergamo in privato insiste con l‘ufficio del Presidente Conte, chiede come mai ci volesse tanto, sostenendo che si stava verificando una catastrofe umana. L’ufficio di Conte risponde, in uno scambio visionato da The New York Times, che ci sarebbe stato un incontro a livello ministeriale sabato, due giorni dopo, e che non si sarebbe presa una decisione prima di allora.

Il 6 marzo, i militari iniziano ad arrivare all’hotel. I poliziotti passano il tempo ispezionando le strade che dovevano chiudere e tenendo briefing nel piano interrato dell’hotel, coi comandanti che disegnano sui cavalletti le mappe delle cittadine e delle loro strade. “Le sapevano a memoria,” ha detto la signora Arzuffi, la proprietaria dell’hotel.

Mentre si esercitano, il Presidente Conte incontra il comitato tecnico scientifico a Roma un’altra volta. Secondo il Ministro Speranza, il comitato ha detto a Conte che la questione non era più se chiudere Bergamo. La scelta era diventata se chiudere tutta la Lombardia, Milano inclusa. Due giorni dopo, l’8 marzo, la Lombardia entra in lockdown. “Non era più sufficiente chiudere solo le città perché il virus era già uscito e dovevamo mettere in campo misure dure ovunque, in una zona ampia”, ha detto Speranza. “Che senso aveva allora?”

Il Presidente Conte ha raccontato di aver chiesto agli scienziati di pensare in modo più ampio e coraggioso, sostenendo di avergli detto “Ma non è forse il caso di pensare a misure più radicali?”. Dopo alcune ore, i poliziotti all’Hotel Continental fanno i bagagli e se ne vanno. “Non successe nulla”, ha detto il sindaco Cancelli.

Prede del Virus

Mentre le autorità decidono sul da farsi, il virus sembra propagarsi ovunque e toccare tutti. Le infezioni devastano le famiglie nelle loro case e nei loro appartamenti. La gente inizia a morire. Il signor Orlandi, il robusto camionista che divertiva i bambini della sua famiglia giocando a fare gli spadaccini con le sue manone, muore il giorno dopo che la sua famiglia viene a sapere che aveva contratto il virus. Altri membri della sua famiglia si ammalarono e morirono. Muoiono anche Giuseppa Nembrini, 82 anni, e Giovanni Morotti, 85, marito e moglie ricoverati in due stanze separate alla fine del corridoio del reparto del signor Orlandi. Muore anche Angiolina Cavalli, 84 anni, una paziente dall’altro lato del corridoio. E muore per il virus anche suo marito, Gianfranco Zambonelli, 85, che era andato a trovarla. “Non ci hanno mai detto niente”, ha raccontato Francesco Zambonelli, loro figlio, anche lui ammalatosi di coronavirus, riferendosi all’ospedale. “Credo che senza saperlo siamo diventati un veicolo di contagio per gli altri”. Tra i malati c’erano dei tifosi della squadra di calcio di Bergamo, alcuni dei 40.000 che erano andati a Milano il 19 febbraio ad applaudire la loro squadra, l’Atalanta, in una partita di Champions League contro la squadra spagnola del Valencia.

“Eravamo uno appiccicato all’altro”, ha ricordato Matteo Doneda, 49, un tifoso sfegatato dell’Atalanta che cantava alla partita “Se facciam danni tu lo capirai, siam bergamaschi e non conosciam confine!” Il 26 febbraio, il signor Doneda ha raccontato che i biscotti hanno iniziato a sapere di sabbia e sua moglie lo ha accompagnato all’ospedale. Riusciva a malapena a camminare e nel giro di poco si è ritrovato a respirare attraverso un casco per l’ossigeno, circondato da persone anziane che faticavano a respirare. Ricorda che alcune di loro avevano la mandibola rotta sotto le maschere perché erano svenute e cadute nel reparto. La Dottoressa Avogadri peggiorò e perse conoscenza, col tempo scivolò verso uno stato semi-comatoso e perse metà dei suoi capelli. “Volevo morire”, ha detto. Quando finalmente fu dimessa, scoprì che il medico che era riuscito a trovarle un tampone al Pesenti Fenaroli era morto e che sua sorella maggiore giaceva in terapia intensiva con un tubo per respirare nella gola.

Non è Colpa di Nessuno

Tutte le autorità coinvolte ora riconoscono che le perdite che ha subito Bergamo sono state una tragedia. Ma ognuno dà la colpa a qualcun altro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che aveva limitato la definizione di caso per motivi pratici, principalmente per non sprecare risorse all’inizio di un’epidemia sconosciuta. Il motivo, ha spiegato la Dottoressa Margaret Harris, portavoce dell’organizzazione, era “limitare i test a una specifica popolazione a rischio”. È una posizione che ex-dirigenti dell’O.M.S. considerano ragionevole. Ma la Dottoressa Harris sostiene anche che quando l’organizzazione aggiornò le sue linee guida alla fine di gennaio, scrisse chiaramente che “è il medico del paziente colui che sostanzialmente deve decidere a chi fare il tampone.” I medici di Bergamo considerano che si tratti di una precisazione di convenienza. Le linee guida erano “la cosa che ha generato l’enorme problema della diffusione della pandemia”, ha affermato la Dottoressa Avogadri. “Era una grande limitazione”.  La Dottoressa Monica Avogadri, aveva chiesto ai suoi colleghi di violare il protocollo e fare il tampone ad uno dei suoi pazienti per il coronavirus, è stata lei stessa gravemente malata di Covid-19. I funzionari dell’O.M.S. “hanno sbagliato”, ha detto Giuseppe Ruocco, il segretario generale del Ministero della Salute, aggiungendo che se l’Italia non avesse automaticamente seguito il suggerimento dell’O.M.S., “poteva evitare certamente dei casi e anche l’infezione degli operatori”.

A giugno, l’Italia ha insignito della sua più alta onorificenza, l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, la Dottoressa Malara, il medico che scoprì l’epidemia ignorando i protocolli. I politici locali e le famiglie in lutto a Nembro e Alzano Lombardo sostengono che chiudere la zona a febbraio avrebbe potuto rallentare la diffusione. Un magistrato sta indagando su quel che è avvenuto e perché. Ma il governo preferisce concentrarsi sull’aver chiuso Lodi e poi la Regione Lombardia. “Sono due piccole cittadine che oggi conoscono tutti”, ha detto il Ministro Speranza rispondendo alla domanda su come sia stato possibile che il premier non abbia saputo per tre giorni che c’era una proposta di chiudere Bergamo. “Ma sono due piccole cittadine”.

Il Presidente Conte ha liquidato le domande ribadendo il suo coraggio nel prendere decisioni. “Non c’è stato nessun ritardo”, ha insistito.

Una Provincia Devastata

Oggi Bergamo è una provincia devastata dal lutto. Questo mese, nel giorno dei Morti, Padre Matteo Cella, che ha celebrato molti funerali per famiglie che conosceva, ha salutato vedove e vedovi, figli, figlie e nipoti. Con indosso mascherine chirurgiche celesti, i familiari si appoggiavano alle lapidi dei loro cari, oppure accanto alle croci di legno provvisorie per le vittime del coronavirus. Padre Matteo e altri prelati hanno letto i nomi delle 231 persone che sono morte in città dal novembre scorso. Almeno 188 sono morti di Covid. I parenti e gli amici dei defunti hanno accompagnato i preti nella preghiera, mentre alcuni passeggiavano sul retro del cimitero, lungo il muro del Mausoleo, sul quale sono incisi molti nomi familiari.

Su una lapide si legge, “Franco Orlandi. 1-3-1936 — 25-2-2020”.

“È incredibile, sono tutte persone che conosco”, ha commentato Luigia Provese, 81 anni, che prendeva il caffè allo stesso bar del Signor Orlandi. Tre delle quattro persone con cui giocava a carte sono morte per il virus. Mentre la seconda ondata del virus imperversa nel Paese, Bergamo sembra protetta dalla devastazione della primavera. I medici dicono che il massiccio tasso di infezioni della prima ondata sembra aver conferito alla zona un certo grado di immunità. Gli ospedali di qui, che prima esportavano infezioni e malati, ora accolgono pazienti dalle zone vicine. La fiera di Bergamo è stata convertita di recente in una grande terapia intensiva con decine di letti e ventilatori a disposizione. Durante un briefing, mentre gli infermieri prendono nota delle bombole di ossigeno rimanenti, la loro coordinatrice, Lauretta Rota, 56 anni, ha l’aria incredula. “C’è voluto un po’ di tempo a credere che stava succedendo di nuovo”, dice. “C’è uno sfinimento emotivo e fisico che deriva dalla consapevolezza di quello che dobbiamo affrontare”.

Il suo cellulare suona.“OK”, risponde, scusandosi. “Arriva il primo paziente”.

Emma Bubola ha contribuito a questo articolo da Bergamo e da Roma. 

Fabio Bucciarelli for The New York Times

Nota.

Questo articolo: The Lost Days That Made Bergamo a Coronavirus Tragedy Nov. 29, 2020 fa parte di una serie di articoli usciti negli ultimi mesi sul New York Times che raccontano ed esaminano i passi falsi, le incomprensioni e i segnali di allarme mancati che hanno permesso al Covid-19 di diffondersi nel mondo.

Per tutti coloro interessati di seguito troverete l’elenco dei vari articoli in inglese.

How the World Missed Covid-19’s Silent SpreadJune 27, 2020

Europe Said It Was Pandemic-Ready. Pride Was Its Downfall.July 20, 2020

When Covid-19 Hit, Many Elderly Were Left to DieAug. 8, 2020

Ski, Party, Seed a Pandemic: The Travel Rules That Let Covid-19 Take FlightSept. 30, 2020

How Trump and Bolsonaro Broke Latin America’s Covid-19 DefensesOct. 27, 2020

In Hunt for Virus Source, W.H.O. Let China Take ChargeNov. 2, 2020

The Lost Days That Made Bergamo a Coronavirus Tragedy.Nov. 29, 2020