Medicine alternative: cosa dice la scienza e quando possono essere utili

Negli ultimi decenni, l’interesse verso le cosiddette “medicine alternative” è cresciuto in tutto il mondo, anche nei Paesi con sistemi sanitari avanzati. Ma cosa si intende davvero con questo termine? E, soprattutto, quali di queste terapie hanno oggi un riconoscimento scientifico?

Cosa sono le medicine alternative?

Le medicine alternative (o complementari) comprendono un’ampia varietà di pratiche che vanno dalla fitoterapia all’agopuntura, dalla medicina tradizionale cinese all’omeopatia, dalla chiropratica alla meditazione, fino a discipline corporee come lo yoga o il Tai Chi.

Spesso vengono usate come supporto alle terapie convenzionali, soprattutto per trattare il dolore cronico, l’ansia, l’insonnia, e altri disturbi della vita quotidiana. In questi casi si parla più propriamente di medicina integrativa, un approccio che unisce il meglio della medicina scientifica con pratiche naturali o tradizionali validate da studi clinici.

Il ruolo dell’educazione e dell’accesso alle informazioni

La diffusione delle medicine alternative non è sempre correlata al livello di istruzione: in alcuni Paesi (come Germania e Stati Uniti), sono proprio le persone con alto livello culturale a ricorrere a queste terapie, spesso alla ricerca di un approccio più olistico o personalizzato. In altri contesti, invece, può prevalere una mancanza di fiducia nella medicina tradizionale o la difficoltà ad accedere al sistema sanitario pubblico.

 

Paese Utenti medicina alternativa (%) Caratteristiche principali
Italia 21% Ampio uso di omeopatia e fitoterapia, specialmente tra donne e over 60
Francia 38% Omeopatia rimborsata fino al 2021, oggi diffusa privatamente
Germania 40% Forte integrazione di medicina antroposofica e agopuntura
Spagna 28% Fitoterapia e agopuntura le più usate, crescenti centri integrativi
Regno Unito 15% Il National Health Service ha ridotto il supporto pubblico, ma esiste interesse per meditazione e yoga
Stati Uniti 34% Presenza in oltre 60 ospedali pubblici di programmi di medicina integrativa

Un fenomeno anche ospedaliero

In risposta alla crescente richiesta, diversi ospedali — specialmente negli Stati Uniti — hanno aperto centri specifici di medicina integrativa. Tra questi si possono citare:

Il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York
Il Cleveland Clinic Center for Integrative Medicine
Il Dana-Farber Cancer Institute di Boston

Anche in Europa alcuni ospedali stanno sperimentando percorsi analoghi, soprattutto in oncologia, geriatria e riabilitazione.

Quando possono essere utili?

Le terapie alternative possono essere prese in considerazione in alcune situazioni specifiche:

- Quando si desidera un supporto per gestire sintomi cronici (dolore, ansia, insonnia)
- Se si vuole affiancare alla cura medica un approccio di benessere generale
- In presenza di malattie terminali o degenerative, come strumento di miglioramento della qualità di vita

È fondamentale però consultare sempre il proprio medico, soprattutto per evitare interazioni dannose tra terapie naturali e farmaci convenzionali.

Le medicine alternative non sono né una truffa, né una soluzione miracolosa. Possono offrire benefici reali, ma solo se inserite in un percorso terapeutico consapevole. L’informazione scientifica e il dialogo tra medico e paziente restano gli strumenti migliori per orientarsi tra promesse, mode e reali possibilità di cura.

maggio 2025

Nelle prossime puntate, nella categoria ‘Medicine naturali’, proporremo approfondimenti sull’agopuntura, sulle piante medicinali, sull’omeopatia, sulla meditazione, il Tai Chi e lo yoga, in particolare per gli anziani, in geriatria e in oncologia. Continuate a seguirci!

‘Frequent Flyer’ in Pronto Soccorso: la fragilità invisibile degli anziani che il territorio può salvare

Ogni anno migliaia di pazienti anziani accedono ripetutamente ai pronto soccorso del Lazio. Spesso non per vere emergenze, ma per mancanza di risposte territoriali efficaci. Una sfida clinica e sociale che chiama in causa medici, amministratori e politiche sanitarie.

 

I "frequent flyer" sono pazienti che si rivolgono frequentemente al pronto soccorso, spesso per problemi che potrebbero — e dovrebbero — essere gestiti fuori dall’ospedale. La maggior parte di essi è rappresentata da anziani fragili, soli, con patologie croniche, spesso in condizioni socio-economiche precarie. In assenza di una rete territoriale efficiente, il pronto soccorso diventa la loro unica "porta d’accesso" al sistema sanitario.

Chi sono i Frequent Flyer?

- Pazienti con più di 4 accessi all’anno al PS.
- Tipicamente anziani (>65 anni), con comorbidità croniche, isolamento sociale e carenze assistenziali domiciliari.
- Spesso non classificati come urgenze, ma bisognosi di presa in carico continuativa.

I numeri nel Lazio 

- Il 2,9% dei pazienti ha generato l’11,9% degli accessi totali in 15 pronto soccorso.
- I frequent flyer hanno un tasso tre volte maggiore di accessi non urgenti (9,7% vs 3,2%).
- Le cause principali: inadeguato follow-up sul territorio, uso improprio del 118 e ritorno ciclico in ospedale.

Le cause: quando il pronto soccorso è l’unica risposta

- Solitudine, povertà, disabilità, decadimento cognitivo.
- Mancanza di un medico di medicina generale disponibile, assistenza domiciliare insufficiente, attese nei servizi territoriali.
- L’ospedale diventa un "rifugio sanitario", anche per problemi sociali.

Le conseguenze per il sistema sanitario

- Sovraccarico dei PS.
- Uso improprio delle risorse emergenziali.
- Frustrazione del personale sanitario.
- Rischio clinico aumentato per i pazienti fragili in ambienti non dedicati.

Le soluzioni già sperimentate 

Nel Lazio:
- Progetto per l’assistenza domiciliare integrata (ADI) agli over 80 e fragili segnalati dai PUA (Punto Unico di Accesso).
- Integrazione tra medici di medicina generale, infermieri di comunità e ospedali di comunità.
- Attivazione del Piano Nazionale Cronicità con attenzione agli anziani multiproblematici.

In Italia e nel mondo:
- Case manager infermieristici dedicati agli anziani dimessi dal Pronto Soccorso.
- Programmi di "transitional care" con follow-up a domicilio nelle 72 ore dopo la dimissione.
- Interventi proattivi dei servizi sociali e di medicina generale.

Cosa serve ora: una chiamata all’azione

- Riconoscere i frequent flyer come categoria clinica e sociale specifica.
- Attivare schede di monitoraggio per pazienti fragili con storico di accessi frequenti.
- Sviluppare équipe multidisciplinari territoriali (medici di medicina generale, infermieri, assistenti sociali).
- Investire in soluzioni digitali per la continuità assistenziale (telemonitoraggio, alert automatici dopo dimissione).

 

La risposta al fenomeno dei frequent flyer non può essere solo ospedaliera. È una questione di salute pubblica, di dignità delle cure, di equità. È anche un banco di prova per la capacità del sistema sanitario di prendersi davvero cura degli anziani più vulnerabili.

maggio 2025

 

Per approfondire:

-       Frontiers in Public Health, 2023 – Frequent Use of ED in Rome 

-       PLOS ONE, 2016 – Frequent use of ED by elderly in Italy

-       Regione Lazio – Assistenza territoriale e domiciliare alla popolazione anziana

-       Cittadinanzattiva – Report su PS del Lazio

-       Population Health Metrics, 2020 – Chronic conditions and ED use in ageing societies

Medicina naturale e cura delle malattie croniche: una nuova rubrica della Ryder Italia

Natura, benessere e fine vita: un nuovo approccio per migliorare la qualità della vita degli anziani.

Negli ultimi anni, l’interesse per le terapie naturali e non farmacologiche è cresciuto in tutto il mondo, anche in risposta ai limiti della medicina tradizionale nel trattare malattie croniche, degenerative e condizioni dell’età avanzata. In particolare, si sta diffondendo la medicina basata sulla natura, un approccio già in uso in Asia ed Europa da decenni, che unisce evidenze scientifiche e buon senso per promuovere salute e benessere attraverso l’interazione attiva con la natura.

Questo nuovo spazio sul sito della Ryder Italia, dedicato al rapporto tra ambiente, stile di vita e salute, nasce per offrire spunti concreti a chi assiste e cura gli anziani, ma anche per chi si avvicina a una nuova visione della medicina. Vogliamo infatti riflettere insieme su come alcune terapie, anche semplici e accessibili, possano alleviare sintomi, rallentare il decorso delle malattie e migliorare la qualità della vita, evitando accanimenti terapeutici e tossicità farmacologiche inutili.

Cosa si intende per medicina basata sulla natura?

È l’uso clinico, prescritto e personalizzato, di attività svolte in ambienti naturali (come camminate nei parchi, giardinaggio, esposizione alla luce naturale o alla biodiversità ambientale), con l’obiettivo di prevenire o trattare malattie croniche: ansia, depressione, diabete, ipertensione, miopia, obesità e demenza, solo per citarne alcune.

Numerose ricerche dimostrano che:

- Una camminata nel bosco può abbassare la glicemia in chi ha il diabete.

- Il giardinaggio regolare riduce il rischio di demenza.

- Esporsi alla luce naturale è efficace quanto alcuni antidepressivi.

- La presenza di piante in casa o in ospedale migliora il benessere e riduce il dolore.

Un approccio integrato per gli anziani fragili

Alla Ryder Italia ci occupiamo da oltre 40 anni di assistenza domiciliare e cure palliative, e ci confrontiamo ogni giorno con pazienti affetti da più patologie. Spesso, oltre alla terapia farmacologica, ciò che aiuta veramente è un cambiamento nello stile di vita, nella relazione con l’ambiente e nella possibilità di trovare piccoli momenti di bellezza, natura e movimento, anche in casa o nel giardino sotto casa.

In questo senso, la medicina naturale si integra con altre modalità che già conosciamo: la medicina metronomica oncologica (che utilizza farmaci a bassissimo dosaggio, con finalità compassionevoli), l’alimentazione consapevole, le stimolazioni cognitive, l’esercizio fisico adattato all’età e la cura delle emozioni.

Perché iniziare questa nuova rubrica?

Perché crediamo che curare non significhi solo somministrare farmaci, ma anche aiutare le persone a vivere meglio, fino alla fine. La natura può essere uno strumento terapeutico potente, gratuito, privo di effetti collaterali, capace di restituire senso e dignità al tempo che rimane.

Nei prossimi mesi proporremo articoli, testimonianze e piccole guide su:

- Terapie naturali per il dolore e l’insonnia

- Alimentazione e demenza

- Come prescrivere una “passeggiata nel verde”

- Terapia orticolturale e pet therapy

- Trattamenti compassionevoli in oncologia

Invitiamo caregiver, familiari e operatori sanitari a seguirci, scriverci, proporre argomenti. Questa rubrica è pensata per chi non vuole sentirsi solo, per chi crede in una medicina più umana e per chi, ogni giorno, cerca un modo per prendersi cura con amore.

Dott. Giovanni Creton

Direttore scientifico Ryder Italia

Le uova: un alimento prezioso per la salute degli anziani

Perché le uova fanno bene?

Le uova sono un alimento semplice, economico e completo. Offrono tanti benefici per la salute, soprattutto in età avanzata:

- le proteine delle uova sono di alta qualità: aiutano a mantenere i muscoli forti e a prevenire la perdita di massa muscolare (sarcopenia).

- la vitamina D è utile per le ossa e il sistema immunitario.

- la vitamina B12 è importante per il cervello e spesso carente negli anziani.

- la colina presente nel tuorlo protegge il fegato e sostiene la memoria.

- gli antiossidanti (la luteina e la zeaxantina) aiutano a mantenere una buona vista.

E il colesterolo?

Per molti anni si è pensato che le uova facessero aumentare il colesterolo. Oggi si sa che un consumo moderato di uova non è pericoloso per la maggior parte delle persone.

Se segui una dieta sana e non hai gravi problemi di colesterolo, puoi mangiare fino a 1 uovo al giorno senza preoccupazioni.

Quante uova si possono mangiare?

Fino a 7 uova a settimana (1 al giorno) per chi è in buona salute.

2–4 uova a settimana per chi ha colesterolo alto, diabete o problemi di cuore (è comunque importante chiedere al proprio medico).

Come cucinarle in modo sano?

Sarebbe meglio optare per:

- delle uova sode

- delle uova strapazzate con poco olio

- delle uova in camicia o al tegamino con acqua

Sarebbe meglio invece evitare fritture e condimenti pesanti (burro, pancetta, salumi)

In sintesi

Le uova sono un ottimo alleato per gli anziani perché sono nutrienti, facili da digerire, economiche e versatili in cucina

Non eliminarle dalla tua dieta: usale con buon senso!

L’aspirina può davvero aiutare a prevenire il cancro?

Immagina una pillola economica, facile da trovare e relativamente sicura, che possa prevenire il cancro o ridurne le recidive. L’aspirina, usata da oltre un secolo per febbre, dolori e cuore, è da tempo sotto osservazione per un possibile ruolo nella prevenzione dei tumori. Ma la storia è complicata, e la scienza ancora divisa.

Un’idea che nasce da lontano

Tutto è iniziato nel 1988, quando alcuni ricercatori australiani notarono che le persone che prendevano aspirina avevano meno probabilità di ammalarsi di cancro al colon-retto. Da allora, oltre 100 studi hanno cercato di capire se davvero l’aspirina potesse proteggere da vari tipi di tumore. I risultati sono stati altalenanti.

La maggiore attenzione si è concentrata proprio sul cancro intestinale. Nel Regno Unito, ad esempio, l’aspirina viene raccomandata a chi ha la sindrome di Lynch, una malattia genetica che aumenta il rischio di tumori, proprio perché sembra ridurre la possibilità che le cellule dell’intestino si trasformino in cellule tumorali. Ma per le persone senza questa predisposizione, il discorso è molto meno chiaro.

Studi contraddittori

Alcuni studi indicano che chi prende aspirina regolarmente ha meno probabilità di sviluppare il cancro al colon-retto. Altri, invece, non hanno trovato differenze significative, soprattutto nei pazienti che già avevano avuto un tumore e volevano evitare che tornasse. Addirittura, uno studio del 2018 ha collegato l’uso quotidiano dell’aspirina a un aumento del rischio di morte per cancro tra le persone anziane, in particolare per quelli gastrointestinali.

Secondo il professor Andrew Chan dell’Università di Harvard, questo studio (chiamato ASPREE) aveva però dei limiti: i partecipanti erano tutti over 70 e il periodo di osservazione era troppo breve. Così, Chan ha analizzato i dati di oltre 100.000 persone seguite per 30 anni e ha notato che prendere almeno due aspirine a settimana può effettivamente ridurre il rischio di cancro al colon-retto. Ma il beneficio era più evidente nelle persone con stili di vita poco salutari (fumatori, sedentari, ecc.), mentre era minimo in chi già seguiva uno stile di vita sano.

Verso una medicina “su misura”

L’idea che emerge è che l’aspirina non è una soluzione valida per tutti, ma potrebbe essere utile solo per alcuni gruppi specifici. Chan sostiene che in futuro sarà importante personalizzare le raccomandazioni, identificando chi può davvero trarne beneficio, tenendo conto anche dei possibili effetti collaterali (come le ulcere e il sanguinamento, che diventano più pericolosi dopo i 70 anni).

Secondo Mangesh Thorat, oncologo a Londra, potrebbe essere meglio iniziare a considerare l’aspirina attorno ai 50 anni, continuandola per un periodo di 5-10 anni, evitando però l’età avanzata in cui i rischi superano i benefici.

Non tutti i tumori reagiscono allo stesso modo

Un’altra complicazione è che l’effetto dell’aspirina varia a seconda del tipo di cancro. Alcuni studi suggeriscono che può ridurre il rischio di tumori come quelli dell’intestino e dello stomaco, ma potrebbe aumentare il rischio di tumori del polmone e della vescica. Ad esempio, in uno studio recente su persone in remissione dal cancro al seno, l’aspirina non ha avuto alcun effetto sulla prevenzione delle recidive.

Un dato incoraggiante, però, viene da uno studio svedese: l’aspirina sembra dimezzare il rischio di recidiva del cancro al colon-retto in pazienti con particolari mutazioni genetiche. Queste mutazioni, presenti nel 15-20% dei tumori intestinali, attivano una via chiamata PI3K, che favorisce la crescita del tumore. L’aspirina, bloccando questa via, potrebbe agire in modo mirato proprio su questi pazienti.

Anche esperimenti su topi suggeriscono un effetto benefico: l’aspirina riduce la produzione di una sostanza (il trombossano A2) che ostacola il lavoro delle cellule T, le nostre cellule immunitarie “killer” che attaccano i tumori. Senza questo ostacolo, il sistema immunitario potrebbe essere più efficiente nel riconoscere e fermare la diffusione del cancro.

Conclusioni: una speranza, ma non una certezza

In sintesi, l’aspirina ha un potenziale come farmaco antitumorale, soprattutto nel cancro al colon-retto, ma non è una cura miracolosa. Gli effetti dipendono dall’età, dallo stile di vita, dalla genetica e dal tipo di tumore. È probabile che in futuro si potrà consigliare in modo più mirato, solo a chi ne può trarre un vero vantaggio, evitando di esporre tutti ai suoi possibili rischi.

Per ora, nessuno consiglia di iniziare a prendere aspirina solo per prevenire il cancro, senza prima parlarne con un medico. Ma la ricerca continua, e potrebbe un giorno trasformare questa vecchia pillola in un’arma in più contro i tumori.

Cure aggressive ancora troppo diffuse alla fine della vita

Due anni fa, sul New York Times, Paula Span pubblicò un articolo sugli eccessivi trattamenti nei pazienti negli ultimi mesi di vita. Le sue riflessioni rimangono attuali anche nel 2025. In Italia, nonostante la Legge 38 del 2010 garantisca il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, l’accesso a questi servizi è ancora limitato. Secondo dati recenti, solo una persona su tre deceduta per tumore ha ricevuto assistenza palliativa, con forti disuguaglianze tra le regioni del Nord e del Sud.

A luglio, Jennifer O’Brien ha ricevuto una delle telefonate più temute: suo padre, 84 anni, che viveva da solo in una zona rurale del New Mexico, era caduto e si era fratturato un’anca. Le sue condizioni generali di salute erano già molto compromesse da insufficienza cardiaca, problemi respiratori e un passato da forte fumatore. Dipendeva da un ventilatore BiPAP per respirare e si muoveva solo con un deambulatore. Aveva espresso chiaramente di non volere rianimazioni o intubazioni in caso di emergenza.

Quando, in ospedale, gli venne proposto l’intervento chirurgico, O’Brien – esperta in sanità e vedova di un medico palliativista – fu chiara: “Papà, cuore e polmoni sono a pezzi”. Il padre scelse di rifiutare l’operazione e di ricevere cure palliative in un hospice. Morì in serenità, assistito e con la figlia accanto.

Questo episodio personale apre la riflessione su un problema diffuso. Uno studio della Case Western Reserve University ha analizzato l’assistenza ricevuta da oltre 146.000 pazienti oncologici anziani negli ultimi 30 giorni di vita. I dati mostrano come una percentuale ancora molto alta – il 58% di chi vive in comunità e il 64% dei residenti in strutture – riceva cure invasive, come chemioterapia, radioterapia, ricoveri ripetuti o terapia intensiva. Un quarto di questi pazienti è sottoposto a trattamenti oncologici aggressivi, anche quando si è vicini alla morte.

Eppure, gli studi dimostrano che la maggior parte delle persone preferisce morire a casa e desidera un fine vita più sereno. Le cure aggressive, oltre a causare più sofferenza, sono spesso inefficaci e anticipano la morte. I familiari, a loro volta, vivono traumi e sensi di colpa maggiori.

Perché allora succede? Spesso i medici evitano conversazioni difficili sul fine vita, o non sono adeguatamente formati per condurle. Anche quando vengono fatte, le famiglie tendono a interpretare in modo troppo ottimistico le previsioni negative. Esiste infatti un fenomeno documentato chiamato “pregiudizio dell’ottimismo”: si pensa che il proprio caro sia “più forte” e che possa farcela, spingendo per trattamenti anche contro la sua volontà.

In alcuni casi, i desideri del paziente vengono ignorati. Un esempio raccontato nell’articolo riguarda un uomo malato di cancro che rifiutava ogni terapia aggressiva, ma la moglie ha insistito per continuare. Solo dopo tre mesi durissimi di chemio e ricoveri, è riuscito ad entrare in hospice e morire come desiderava.

Questi temi ci riguardano da vicino anche in Italia. La Legge 38/2010 garantisce il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, sia a domicilio che in hospice. Ma purtroppo, tale legge non è sempre applicata: mancano medici formati, strutture adeguate e una cultura diffusa del fine vita. Molti pazienti e famiglie non conoscono i propri diritti o non ricevono informazioni chiare sui percorsi alternativi alla medicina aggressiva.

Perché è importante parlarne?

Perché le scelte sulla fine della vita sono cruciali. Devono essere informate, rispettate e supportate. Un sistema sanitario moderno non può ignorare il diritto delle persone a morire con dignità, evitando sofferenze inutili e rispettando i propri valori.

In Italia, c’è chi lavora ogni giorno per questo. La Ryder Italia, fondata quasi 40 anni fa, è stata tra le prime organizzazioni a offrire cure palliative gratuite, e la prima a farlo nella città di Roma. Da allora, non ha mai smesso. Ancora oggi, continua a prendersi cura di pazienti con malattie inguaribili, accompagnandoli con competenza e umanità lungo il percorso più delicato della vita. È una testimonianza concreta di come un altro approccio sia possibile, dove la qualità della vita e il rispetto delle volontà del paziente vengano messi al centro.

Promuovere una cultura delle cure palliative significa restituire dignità alla persona fino all’ultimo respiro, e restituire alle famiglie la possibilità di ricordare con serenità e gratitudine il tempo condiviso.

Cosa significa BiPAP?

La BiPAP (Bilevel Positive Airway Pressure) è una terapia respiratoria che funziona erogando aria pressurizzata a due livelli diversi durante il ciclo respiratorio, uno durante l'inspirazione (IPAP) e uno durante l'espirazione (EPAP).

La vecchiaia dimenticata: un italiano su quattro è solo

Italia, un Paese sempre più solo: cresce la solitudine tra gli anziani.

In Italia ci sono milioni di persone che invecchiano in silenzio. Letteralmente. Secondo gli ultimi dati ISTAT, oltre 4 milioni di anziani vivono da soli. E tra questi, un numero crescente dichiara di sentirsi profondamente solo. La solitudine, per molti, non è una scelta ma una condizione imposta dalla vita moderna, dalla distanza dei familiari, dalla mancanza di reti sociali.

Un fenomeno diffuso, e in preoccupante aumento, che sta diventando una vera e propria emergenza sociale, ancora troppo spesso ignorata.

 

Una popolazione sempre più anziana

L’Italia è uno dei Paesi più longevi del mondo, ma anche tra i più vecchi: oggi quasi un italiano su quattro ha più di 65 anni, e le proiezioni dicono che entro il 2050 questa quota supererà il 30%. In questo scenario, la solitudine rischia di diventare la nuova pandemia silenziosa.

Il 40% degli over 75 vive da solo, spesso senza un contatto quotidiano con familiari, amici o vicini. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 30% degli anziani si sente frequentemente solo, e la maggior parte di loro non partecipa più ad attività sociali o ricreative.

 

Quando la solitudine fa ammalare

La solitudine non è solo una questione emotiva. Gli effetti sulla salute sono tangibili e gravi. Gli studi più recenti dimostrano che chi vive in solitudine ha maggiori probabilità di soffrire di depressione, ansia, declino cognitivo e malattie croniche. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme: la solitudine ha un impatto sulla salute paragonabile al fumo di 15 sigarette al giorno.

E non è tutto. Gli anziani soli tendono a rinunciare a cure mediche, a visite di controllo e persino all’alimentazione corretta. Spesso, semplicemente, non hanno nessuno che li accompagni o li incoraggi.

 

Le risposte ci sono, ma non bastano

In alcune città italiane stanno nascendo progetti che cercano di combattere l’isolamento. Ci sono volontari che telefonano agli anziani ogni giorno, associazioni che organizzano incontri di socializzazione, “portinerie di comunità” che offrono aiuto concreto e un punto di riferimento umano.

Ma spesso queste iniziative si reggono sul lavoro gratuito di pochi e su fondi instabili. Manca una strategia nazionale, un piano organico che riconosca la solitudine come una minaccia concreta alla salute pubblica.

Un problema culturale, non solo sanitario

La solitudine degli anziani non si combatte solo con i servizi sociali, ma anche con una trasformazione culturale. Servono politiche intergenerazionali, città più accessibili, occasioni di incontro. Ma serve anche qualcosa di più semplice: tempo, attenzione, umanità.

Conoscere il proprio vicino, fare una telefonata, coinvolgere un anziano in una cena di famiglia o in una passeggiata: piccoli gesti che possono cambiare radicalmente la giornata — e la vita — di chi è solo.

Il futuro ci riguarda tutti

Quella della solitudine è una sfida collettiva. Perché quello che oggi vivono milioni di anziani, domani potrebbe toccare a ognuno di noi. E una società che sa prendersi cura dei suoi anziani è una società che investe sul proprio futuro, sulla propria tenuta sociale, sulla propria umanità.