L’aspirina può davvero aiutare a prevenire il cancro?

Immagina una pillola economica, facile da trovare e relativamente sicura, che possa prevenire il cancro o ridurne le recidive. L’aspirina, usata da oltre un secolo per febbre, dolori e cuore, è da tempo sotto osservazione per un possibile ruolo nella prevenzione dei tumori. Ma la storia è complicata, e la scienza ancora divisa.

Un’idea che nasce da lontano

Tutto è iniziato nel 1988, quando alcuni ricercatori australiani notarono che le persone che prendevano aspirina avevano meno probabilità di ammalarsi di cancro al colon-retto. Da allora, oltre 100 studi hanno cercato di capire se davvero l’aspirina potesse proteggere da vari tipi di tumore. I risultati sono stati altalenanti.

La maggiore attenzione si è concentrata proprio sul cancro intestinale. Nel Regno Unito, ad esempio, l’aspirina viene raccomandata a chi ha la sindrome di Lynch, una malattia genetica che aumenta il rischio di tumori, proprio perché sembra ridurre la possibilità che le cellule dell’intestino si trasformino in cellule tumorali. Ma per le persone senza questa predisposizione, il discorso è molto meno chiaro.

Studi contraddittori

Alcuni studi indicano che chi prende aspirina regolarmente ha meno probabilità di sviluppare il cancro al colon-retto. Altri, invece, non hanno trovato differenze significative, soprattutto nei pazienti che già avevano avuto un tumore e volevano evitare che tornasse. Addirittura, uno studio del 2018 ha collegato l’uso quotidiano dell’aspirina a un aumento del rischio di morte per cancro tra le persone anziane, in particolare per quelli gastrointestinali.

Secondo il professor Andrew Chan dell’Università di Harvard, questo studio (chiamato ASPREE) aveva però dei limiti: i partecipanti erano tutti over 70 e il periodo di osservazione era troppo breve. Così, Chan ha analizzato i dati di oltre 100.000 persone seguite per 30 anni e ha notato che prendere almeno due aspirine a settimana può effettivamente ridurre il rischio di cancro al colon-retto. Ma il beneficio era più evidente nelle persone con stili di vita poco salutari (fumatori, sedentari, ecc.), mentre era minimo in chi già seguiva uno stile di vita sano.

Verso una medicina “su misura”

L’idea che emerge è che l’aspirina non è una soluzione valida per tutti, ma potrebbe essere utile solo per alcuni gruppi specifici. Chan sostiene che in futuro sarà importante personalizzare le raccomandazioni, identificando chi può davvero trarne beneficio, tenendo conto anche dei possibili effetti collaterali (come le ulcere e il sanguinamento, che diventano più pericolosi dopo i 70 anni).

Secondo Mangesh Thorat, oncologo a Londra, potrebbe essere meglio iniziare a considerare l’aspirina attorno ai 50 anni, continuandola per un periodo di 5-10 anni, evitando però l’età avanzata in cui i rischi superano i benefici.

Non tutti i tumori reagiscono allo stesso modo

Un’altra complicazione è che l’effetto dell’aspirina varia a seconda del tipo di cancro. Alcuni studi suggeriscono che può ridurre il rischio di tumori come quelli dell’intestino e dello stomaco, ma potrebbe aumentare il rischio di tumori del polmone e della vescica. Ad esempio, in uno studio recente su persone in remissione dal cancro al seno, l’aspirina non ha avuto alcun effetto sulla prevenzione delle recidive.

Un dato incoraggiante, però, viene da uno studio svedese: l’aspirina sembra dimezzare il rischio di recidiva del cancro al colon-retto in pazienti con particolari mutazioni genetiche. Queste mutazioni, presenti nel 15-20% dei tumori intestinali, attivano una via chiamata PI3K, che favorisce la crescita del tumore. L’aspirina, bloccando questa via, potrebbe agire in modo mirato proprio su questi pazienti.

Anche esperimenti su topi suggeriscono un effetto benefico: l’aspirina riduce la produzione di una sostanza (il trombossano A2) che ostacola il lavoro delle cellule T, le nostre cellule immunitarie “killer” che attaccano i tumori. Senza questo ostacolo, il sistema immunitario potrebbe essere più efficiente nel riconoscere e fermare la diffusione del cancro.

Conclusioni: una speranza, ma non una certezza

In sintesi, l’aspirina ha un potenziale come farmaco antitumorale, soprattutto nel cancro al colon-retto, ma non è una cura miracolosa. Gli effetti dipendono dall’età, dallo stile di vita, dalla genetica e dal tipo di tumore. È probabile che in futuro si potrà consigliare in modo più mirato, solo a chi ne può trarre un vero vantaggio, evitando di esporre tutti ai suoi possibili rischi.

Per ora, nessuno consiglia di iniziare a prendere aspirina solo per prevenire il cancro, senza prima parlarne con un medico. Ma la ricerca continua, e potrebbe un giorno trasformare questa vecchia pillola in un’arma in più contro i tumori.

Cure aggressive ancora troppo diffuse alla fine della vita

Due anni fa, sul New York Times, Paula Span pubblicò un articolo sugli eccessivi trattamenti nei pazienti negli ultimi mesi di vita. Le sue riflessioni rimangono attuali anche nel 2025. In Italia, nonostante la Legge 38 del 2010 garantisca il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, l’accesso a questi servizi è ancora limitato. Secondo dati recenti, solo una persona su tre deceduta per tumore ha ricevuto assistenza palliativa, con forti disuguaglianze tra le regioni del Nord e del Sud.

A luglio, Jennifer O’Brien ha ricevuto una delle telefonate più temute: suo padre, 84 anni, che viveva da solo in una zona rurale del New Mexico, era caduto e si era fratturato un’anca. Le sue condizioni generali di salute erano già molto compromesse da insufficienza cardiaca, problemi respiratori e un passato da forte fumatore. Dipendeva da un ventilatore BiPAP per respirare e si muoveva solo con un deambulatore. Aveva espresso chiaramente di non volere rianimazioni o intubazioni in caso di emergenza.

Quando, in ospedale, gli venne proposto l’intervento chirurgico, O’Brien – esperta in sanità e vedova di un medico palliativista – fu chiara: “Papà, cuore e polmoni sono a pezzi”. Il padre scelse di rifiutare l’operazione e di ricevere cure palliative in un hospice. Morì in serenità, assistito e con la figlia accanto.

Questo episodio personale apre la riflessione su un problema diffuso. Uno studio della Case Western Reserve University ha analizzato l’assistenza ricevuta da oltre 146.000 pazienti oncologici anziani negli ultimi 30 giorni di vita. I dati mostrano come una percentuale ancora molto alta – il 58% di chi vive in comunità e il 64% dei residenti in strutture – riceva cure invasive, come chemioterapia, radioterapia, ricoveri ripetuti o terapia intensiva. Un quarto di questi pazienti è sottoposto a trattamenti oncologici aggressivi, anche quando si è vicini alla morte.

Eppure, gli studi dimostrano che la maggior parte delle persone preferisce morire a casa e desidera un fine vita più sereno. Le cure aggressive, oltre a causare più sofferenza, sono spesso inefficaci e anticipano la morte. I familiari, a loro volta, vivono traumi e sensi di colpa maggiori.

Perché allora succede? Spesso i medici evitano conversazioni difficili sul fine vita, o non sono adeguatamente formati per condurle. Anche quando vengono fatte, le famiglie tendono a interpretare in modo troppo ottimistico le previsioni negative. Esiste infatti un fenomeno documentato chiamato “pregiudizio dell’ottimismo”: si pensa che il proprio caro sia “più forte” e che possa farcela, spingendo per trattamenti anche contro la sua volontà.

In alcuni casi, i desideri del paziente vengono ignorati. Un esempio raccontato nell’articolo riguarda un uomo malato di cancro che rifiutava ogni terapia aggressiva, ma la moglie ha insistito per continuare. Solo dopo tre mesi durissimi di chemio e ricoveri, è riuscito ad entrare in hospice e morire come desiderava.

Questi temi ci riguardano da vicino anche in Italia. La Legge 38/2010 garantisce il diritto alle cure palliative e alla terapia del dolore, sia a domicilio che in hospice. Ma purtroppo, tale legge non è sempre applicata: mancano medici formati, strutture adeguate e una cultura diffusa del fine vita. Molti pazienti e famiglie non conoscono i propri diritti o non ricevono informazioni chiare sui percorsi alternativi alla medicina aggressiva.

Perché è importante parlarne?

Perché le scelte sulla fine della vita sono cruciali. Devono essere informate, rispettate e supportate. Un sistema sanitario moderno non può ignorare il diritto delle persone a morire con dignità, evitando sofferenze inutili e rispettando i propri valori.

In Italia, c’è chi lavora ogni giorno per questo. La Ryder Italia, fondata quasi 40 anni fa, è stata tra le prime organizzazioni a offrire cure palliative gratuite, e la prima a farlo nella città di Roma. Da allora, non ha mai smesso. Ancora oggi, continua a prendersi cura di pazienti con malattie inguaribili, accompagnandoli con competenza e umanità lungo il percorso più delicato della vita. È una testimonianza concreta di come un altro approccio sia possibile, dove la qualità della vita e il rispetto delle volontà del paziente vengano messi al centro.

Promuovere una cultura delle cure palliative significa restituire dignità alla persona fino all’ultimo respiro, e restituire alle famiglie la possibilità di ricordare con serenità e gratitudine il tempo condiviso.

Cosa significa BiPAP?

La BiPAP (Bilevel Positive Airway Pressure) è una terapia respiratoria che funziona erogando aria pressurizzata a due livelli diversi durante il ciclo respiratorio, uno durante l'inspirazione (IPAP) e uno durante l'espirazione (EPAP).

Cannabis e assistenza medica: realtà e prospettive scientifiche.

Negli ultimi anni, la cannabis è diventata uno dei temi più dibattuti nel campo della salute e delle politiche sociali. Numerosi studi hanno esaminato il suo utilizzo in ambito terapeutico, mettendo in luce sia i benefici che i potenziali rischi. In questo articolo, analizziamo l’effettiva efficacia della cannabis nel trattamento di diverse patologie, la scelta del governo italiano di limitare ogni forma di coltivazione e come tali decisioni si confrontino con le esperienze di paesi vicini quali Francia, Germania, Spagna e Inghilterra.

L’efficacia terapeutica della Cannabis

I benefici dimostrati in studi clinici

Questi risultati sono sostenuti da evidenze scientifiche pubblicate su riviste specializzate, che confermano come l’utilizzo controllato della cannabis in ambito terapeutico possa apportare benefici misurabili, a fronte di minori effetti collaterali rispetto ad altri farmaci.

Rischi e limiti

È altresì vero che, soprattutto in contesti di abuso o in assenza di controllo medico, l’uso della cannabis può comportare rischi. Tra questi si annoverano effetti psichiatrici in soggetti predisposti, compromissione della funzione cognitiva e, in alcuni casi, un potenziale sviluppo di dipendenza. Il quadro rischi/benefici, pertanto, dovrebbe sempre essere valutato in maniera individualizzata e nel contesto di una prescrizione medica.

La posizione del governo italiano: un approccio di rigidità o di sicurezza?

Recentemente, il governo italiano ha deciso di mettere fuori legge qualsiasi forma di coltivazione della marijuana, evidenziando la necessità di prevenire eventuali rischi legati a un’eccessiva liberalizzazione. Le ragioni dichiarate riguardano principalmente:

Tuttavia, alcuni esperti evidenziano come tale approccio, estremamente restrittivo, non tenga pienamente conto dei dati scientifici che supportano l’utilizzo terapeutico della cannabis. Bloccare ogni forma di coltivazione, anche in contesti regolamentati o per scopi di ricerca, potrebbe rallentare lo sviluppo di nuove terapie e la raccolta di evidenze cliniche necessarie per definire protocolli di sicurezza e dosaggi appropriati.

Confronto con altri paesi europei

La strategia italiana si pone in contrasto con l’approccio adottato da diverse nazioni europee:

Il confronto internazionale suggerisce che un sistema che regola e controlla l’uso della cannabis – invece di un divieto totale – permette di offrire ai pazienti terapie innovative, mantenendo al contempo un elevato standard di sicurezza.

Scienza e politica: un dialogo necessario

Il divario che si osserva spesso tra le decisioni politiche e i dati scientifici è evidente nel caso della cannabis. La letteratura medica attuale supporta l’uso controllato della sostanza in numerosi ambiti terapeutici, purché venga garantito un rigoroso monitoraggio e una formazione specifica dei professionisti coinvolti. Le politiche di altri paesi dimostrano come la regolamentazione – piuttosto che il divieto totale – può contribuire a minimizzare i rischi per l’individuo e la società, offrendo al contempo una risorsa terapeutica preziosa.

Un approccio integrato potrebbe prevedere la creazione di programmi pilota, in cui la coltivazione e la distribuzione della cannabis per fini terapeutici siano strettamente regolamentate, con protocolli standardizzati e controlli continuativi, in modo da allinearsi alle evidenze scientifiche emergenti.

Conclusioni e prospettive future

Alla luce dei dati attuali e degli esempi internazionali, appare fondamentale riconsiderare l’approccio normativo italiano sulla cannabis. Se da un lato la necessità di salvaguardare la salute pubblica e prevenire il traffico illecito è indiscutibile, dall’altro è altrettanto necessario valorizzare il potenziale terapeutico della cannabis mediante una regolamentazione basata su evidenze scientifiche.

Un modello ibrido – che permetta la coltivazione a scopi terapeutici e di ricerca in ambienti controllati – potrebbe rappresentare una soluzione efficace, in grado di proteggere la società dai rischi dell’abuso senza rinunciare a un’importante risorsa medica. Le decisioni future dovrebbero quindi privilegiare il dialogo tra scienziati, medici e legislatori, al fine di allineare le politiche pubbliche ai progressi della ricerca e alle necessità reali dei pazienti.

Solo attraverso un confronto aperto e informato si potrà costruire un modello regolamentativo che, bilanciando rischi e benefici, risponda alle esigenze sia del singolo individuo che della comunità, senza rinunciare all’innovazione terapeutica che la scienza moderna ci offre.

I responsabili politici dovrebbero riconsiderare le normative vigenti promuovendo programmi pilota e sistemi di monitoraggio strettamente regolamentati, che consentano di sfruttare il potenziale terapeutico della cannabis.

La comunità scientifica dovrebbe intensificare e divulgare la ricerca sull’efficacia e sicurezza della cannabis in ambito terapeutico, favorendo una collaborazione multidisciplinare internazionale.

Infine, la società civile dovrebbe informarsi e partecipare al dibattito pubblico, chiedendo trasparenza e basando le proprie opinioni sui dati scientifici, piuttosto che su presupposti ideologici o pregiudizi storici.