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Empatia, un requisito essenziale nelle cure palliative

Nell'accompagnare un malato nelle ultime settimane di vita la preparazione del personale delle Equipe di cure palliative è un aspetto fondamentale. Frequentemente le richieste da parte dei familiari possono creare incomprensioni tra il personale curante e le esigenze emotive dei familiari.Per qualsiasi persona abituarsi all'idea di perdere una persona amata comporta la ricerca di ulteriori terapia che possano prolungare la vita del malato.Dal momento che il malato oncologico in breve tempo può passare da una fase dove è possibile ricorrere a nuovi schemi di terapia ad un improvvisa interruzione di modalità terapeutiche "curative" per aprire il  capitolo delle cure palliative. Non è quindi facile per le equipe di cure palliative subentrare con modalità di supporto e cercare di convincere la famiglia, che tutto ciò che si può fare, è accompagnare il malato con semplici  terapie che mirano al contenimento dei sintomi ed al miglioramento della qualità della vita.Per il personale sociosanitario grazie all'esperienza sul campo è facile suggerire le  soluzioni che sembrano più idonee allo stato clinico del malato. Spesso lo stesso malato, non sempre informato sulla reale situazione, e sopratutto i familiari, si aspettano  nuove possibilità terapeutiche. Questo atteggiamento della famiglia in genere viene etichettato come "negazione" rispetto ad una realtà più cruda e difficile da accettare. Per questo motivo vi invitiamo a leggere la trascrizione dell'intervista di una giornalista americana Amanda Bennet  che ha vissuto in prima persona questa situazione e che racconta la esperienza dalla parte di un familiare di un malato e delle possibili incomprensioni tra famiglia e curanti. L'intervista a TED talks si chiama "Abbiamo bisogno di un racconto epico per la morte":

Vorrei portarvi con me indietro nel tempo solo per pochi minuti in una notte oscura in Cina, la notte in cui incontrai mio marito. C'era una città così tanto tempo fa che la chiamavano ancora Peking.
Andai a una festa. Mi sedetti accanto a un uomo robusto di mezza età con occhiali a fondo di bottiglia e papillon, e scoprii che era un borsista Fullbright, in Cina per il preciso scopo di studiare le relazioni sino-sovietiche. Che occasione per l'entusiasta, giovane corrispondente estera che ero allora. Gli feci una domanda dietro l'altra, prendendo note mentali per le storie che voglio scrivere. Parlai  con lui per ore.

Solo mesi dopo, scopro chi era davvero. Era il rappresentante cinese per l'associazione americana dei semi di soia.
"Non capisco. Semi di soia? Mi hai detto che eri un borsista Fullbright".

"Be', per quanto mi avresti parlato se ti avessi detto che ci occupiamo di semi di soia?"
Dissi, "Idiota". Solo che idiota non è la parola che usai. dissi, "Potevi farmi licenziare".
E lui disse, "Sposiamoci". "Giriamo il mondo e facciamo tanti bambini". E così facemmo.

E che uomo vivace Terence Bryan Foley mostrò di essere. Era uno studioso di cinese che più tardi, attorno ai sessanta, prese un dottorato in storia cinese. Parlava sei lingue, suonava 15 strumenti musicali, aveva il brevetto di pilota, un tempo era stato autista di tram a San Francisco, era un esperto in alimentazione suina, mucche da latte, jazz dei bianchi di New Orleans, film noir, e girammo davvero il paese, e il mondo, e davvero abbiamo avuto tanti bambini. Seguimmo il mio lavoro, e sembrava che non ci fosse nulla che non potevamo fare.

Perciò quando scoprimmo il cancro, a noi non sembra per nulla strano che senza scambiarci una parola, credevamo che, ad essere abbastanza intelligenti, abbastanza forti e abbastanza coraggiosi, e a lavorare abbastanza duro, potevamo impedirgli di morire per sempre.
E per anni, sembrava che ce la facessimo. Il chirurgo uscì dalla sala operatoria. Cosa disse? Quello che i chirurghi dicono sempre: "Abbiamo tolto tutto". Poi una battuta d'arresto quando il patologo guardò più da vicino il cancro del rene. Si scoprì che era un tipo raro, molto aggressivo, con una diagnosi quasi universalmente mortale entro al massimo qualche settimana. Eppure, non morì. Misteriosamente, continuò a vivere. Fu l'allenatore dei pulcini per nostro figlio. Costruì una casetta per le bambole per nostra figlia. E intanto, io mi seppellisco in rete in cerca di specialisti. Sto cercando una cura.

Così passa un anno prima che il cancro, come fanno sempre, riappaia, e con esso una nuova sentenza di morte, questa volta entro nove mesi. Proviamo un'altra cura, aggressiva, sgradevole. Lo fa stare così male, che deve abbandonarla, eppure continua a vivere. Poi passa un altro anno. Passano due anni. Altri specialisti. Portiamo i bambini in Italia. Portiamo i bambini in Australia.
E passano altri anni, e il cancro inizia a crescere. Questa volta, ci sono cure nuove all'orizzonte. Sono innovative. Sono sperimentali. Attaccheranno il cancro in modi nuovi. Entra a far parte dei test clinici, e funziona. Il cancro inizia a regredire, e per la terza volta, abbiamo schivato la morte.

Quindi ora vi chiedo, come mi sento quando infine arriva il momento e c'è un'altra notte oscura, tra la mezzanotte e le due. Questa volta al reparto di terapia intensiva quando un medico poco più che ventenne che non ho mai visto prima mi dice che Terence sta morendo, forse stanotte.
Che cosa dico quando lui dice, "Cosa vuole che faccia?"
C'è un'altra medicina lì fuori. Più nuova. Più potente. Ha iniziato solo due settimane fa. Forse c'è ancora speranza.
Quindi cosa dico?
Dico, "Lo tenga in vita se può".

E Terence morì sei giorni dopo.

Abbiamo combattuto, abbiamo lottato, abbiamo trionfato. È stata una battaglia entusiasmante, e combatterei di nuovo oggi senza nessuna esitazione. Abbiamo combattuto insieme, vissuto insieme. Ha trasformato quelli che avrebbero potuto essere sette degli anni più cupi della nostra vita in sette dei più gloriosi. È stata anche una battaglia costosa. È stato il genere di battaglia e di scelte che, come tutti qui sappiamo, gonfiano il costo delle cure di fine vita, e della sanità, per tutti noi.
E per quanto riguarda me, noi, abbiamo spinto la battaglia fin oltre il limite, e non ho mai avuto la possibilità di dirgli quello che ora gli dico quasi ogni giorno: "Ehi, amico, è stata una gran bella galoppata". Non abbiamo mai avuto la possibilità di dirci addio. Non abbiamo mai pensato che fosse la fine. Abbiamo sempre sperato.

Quindi qual è il senso di tutto questo?
Come giornalista, dopo la morte di Terence, ho scritto un libro, "Il costo della speranza". L'ho scritto perché volevo sapere perché ho fatto quel che ho fatto, perché lui ha fatto quel che ha fatto, perché tutti attorno a noi hanno fatto quel che hanno fatto.
E cosa ho scoperto? Be', una delle cose che ho scoperto è che gli esperti ritengono che una risposta a quello che ho fatto alla fine era un pezzo di carta, il testamento biologico, per aiutare le famiglie a superare le scelte in apparenza irrazionali. Eppure avevo quel pezzo di carta. Tutti e due lo avevamo. Ed erano subito disponibili. Li avevo a portata di mano. Entrambi dicevano la stessa cosa: non fate niente se non c'è più speranza. Conoscevo i desideri di Terence con la stessa precisione e sicurezza con cui conosco i miei.

Eppure non abbiamo mai perso la speranza. Anche con quel foglio lampante nelle nostre mani, abbiamo continuato a ridefinire la speranza. Credevo di potergli impedire di morire, e mi sentirei in imbarazzo a dirlo se non avessi visto tante persone e se non avessi parlato a tante persone che si sono sentite nello stesso identico modo. Fino a pochi giorni prima della sua morte, sentivo fortemente, intensamente, e, potreste dire, irrazionalmente, che potevo impedirgli di morire per sempre.
Ora, come chiamano questo gli esperti? Dicono che è lo stato di negazione. È una parola forte, vero? Eppure vi dirò che negazione non è neppure lontanamente abbastanza forte per descrivere quello che noi che siamo di fronte alla morte dei nostri cari attraversiamo.


E sento i professionisti della medicina dire, "Be', vorremmo fare così e così, ma la famiglia è in negazione. La famiglia non sente ragioni. Sono in negazione. Come possono insistere per continuare la cura adesso che è finita? È così chiaro, eppure sono in negazione".

Ora, penso che forse non è un modo di pensare molto utile. Non riguarda nemmeno solo le famiglie. Anche i professionisti della medicina, voi là fuori, anche voi siete in negazione. Volete aiutare. Volete sistemare. Volete fare. Avete avuto successo in tutto quel che avete fatto, e se un vostro paziente muore, be', deve sembrarvi un fallimento.
L'ho visto in prima persona. Pochi giorni prima che Terence morisse, il suo oncologo disse, "Di' a Terence che stanno per arrivare giorni migliori". Pochi giorni prima che morisse.

Eppure Ira Byock, direttrice della medicina palliativa a Dartmouth, disse, "Sai, il miglior dottore del mondo non è mai riuscito a rendere qualcuno immortale".
Quello che gli esperti chiamano "negazione", io lo chiamo "speranza", e vorrei prendere in prestito una frase dai miei amici del software design. Ridefinisci negazione e speranza, e diventa un tratto distintivo dell'essere umani. Non è un bug. È una caratteristica.
Dobbiamo pensare in modo più costruttivo a questa molto comune, molto profonda e molto potente emozione umana. È parte della condizione umana, eppure il nostro sistema e modo di pensare non sono fatti per ospitarla.

Terence mi raccontò una storia quella notte di tanto tempo fa, e ci credetti. Forse volevo crederci. E durante la malattia di Terence, io, noi, volevamo credere anche alla storia della nostra lotta insieme. Rinunciare alla lotta -- perché sembrava questo, sembrava arrendersi -- significava rinunciare non solo alla sua vita ma anche alla nostra storia, la storia di noi come combattenti, la storia di noi come invincibili, e per i dottori, la storia di loro stessi come guaritori.
Di cosa abbiamo bisogno quindi?
Forse non ci serve un altro pezzo di carta. Forse ci serve una storia nuova, non una storia sul rinunciare a combattere o sulla mancanza di speranza, piuttosto una storia di vittoria e trionfo, di una battaglia valorosa e, alla fine, di un'aggraziata ritirata, una storia che riconosce che nemmeno il generale più grandioso sconfigge ogni nemico, che nessun dottore è mai riuscito a rendere qualcuno immortale, e che nessuna moglie, non importa quanto ci provi, ha mai impedito anche al più coraggioso, più arguto e più follemente amabile dei mariti di morire quand'era la sua ora.

La gente aveva parlato dell'ospizio, ma non volevo ascoltare. L'ospizio era per quelli che stavano morendo, e Terence non stava morendo. Come risultato, ci passò solo quattro giorni, che, sono sicura, come sapete tutti, è un finale molto comune e non ci siamo mai detti addio perché non eravamo pronti alla fine. Abbiamo un nobile cammino per curare la malattia, pazienti come dottori, ma non sembra esserci un nobile cammino per morire. Morire è visto come fallire, e noi avevamo un racconto epico per combattere insieme, ma nessun racconto epico per arrenderci. Forse abbiamo bisogno di un racconto per riconoscere la fine, e per dire addio, e forse la nostra nuova storia sarà sulla battaglia di un eroe, e l'addio di un eroe.

Terence amava la poesia, e il poeta greco Konstantinos Kavafis è uno dei miei preferiti. Voglio recitarvi un paio dei suoi versi. È una poesia su Marco Antonio. Conoscete Marco Antonio, il conquistatore, il ragazzo di Cleopatra? Be', uno dei ragazzi di Cleopatra. È stato un generale piuttosto bravo. Ha vinto tutte le battaglie, è sfuggito a quelli che cercavano di catturarlo, eppure questa volta, alla fine, è arrivato nella città di Alessandria è ha capito che ha perso. Il popolo fugge. Suonano degli strumenti. Cantano. E all'improvviso sa che è stato sconfitto. E all'improvviso sa che gli dèi lo hanno abbandonato, ed è il momento di arrendersi. E il poeta gli dice cosa fare. Gli dice come dire un addio nobile, un addio appropriato ad un eroe.

"Come l'avessi preparato da tempo, come piano di coraggio, tale quale si conviene a te che meritavi una simile città, avvicinati alla finestra con passo fermo, e con sentimento, ma senza le suppliche o i lamenti di un codardo, come l'ultima cosa da godere, ascolta i suoni, gli strumenti deliziosi delle truppe musicali, e dille addio, ad Alessandria che perdi".


È l'addio giusto per un uomo più grande della vita, l'addio per un uomo per il quale tutto, be', quasi tutto, era possibile, un addio per un uomo che tenne viva la speranza.E non è questo che ci manca? Come facciamo a imparare che le decisioni delle persone su coloro che amano spesso sono basate con forza, veemenza, spesso irrazionalità, sulla più piccola delle speranze? La presenza travolgente della speranza non è negazione.È parte del nostro DNA come umani, e forse è ora che il nostro sistema sanitario --dottori, pazienti, compagnie d'assicurazioni, noi, iniziamo a tenere da conto il potere di quella speranza. La speranza non è un bug. È una caratteristica dell'essere umano.

per vedere l'intervista su TED Talks collegarsi a:

https://www.ted.com/talks/amanda_bennett_a_heroic_narrative_for_letting_go?language=it